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l'arazzino

"Il quadretto rappresentava una spiaggia arida: la sabbia, ricamata con la seta grezza, segnava il primo piano; dopo veniva la striscia verdastra del mare, sullo sfondo grigio azzurro del cielo. Su questo paesaggio, che con sole tre linee segnava una immensità ariosa e profonda, due figure camminavano. Sì, pareva proprio di vederle camminare, coi piedi sollevati, e dietro di loro le orme sulla sabbia: una rappresentava un uomo calvo, con un lungo camice stretto alla cintura e i sandali di corda: aveva in mano un fardello e precedeva una donna più alta di lui, che teneva in braccio un bambino (doveva essere un bambino dal modo come lei lo reggeva) tutto ricoperto di un drappo scuro. Lei era vestita di rosso, coi sandali di corda, la testa avviluppata di trecce mirabilmente imitate con la seta giallo-oro.

Sotto, sul margine ancora vuoto del canovaccio, ricamato con la seta nera, si leggeva il titolo: La fuga in Egitto."

Questa è la descrizione di un piccolo arazzo a punto in croce ricamato, in anni e anni di passione, dalla madre di Giuseppe De Nicola.

 
le fughetorna su

Chi avesse mai pensato ad una simile Fuga in Egitto lo dica! L'immagine solita dell'episodio vede in genere un vecchio, certamente calvo e con un lungo camicione, che - a piedi - indirizza un docile asino che porta in groppa, cavalcante da amazzone, una donna con bambino. Lei ha un cappuccio in testa a nascondere i capelli, altro che trecce giallo-oro! Un secondo asino, può a volte accompagnarsi al primo, segue carico di provviste, di un brazzolino (1) e degli attrezzi indispensabili alla bottega del falegname Giuseppe: una serra (2) e un graffio, e poi una raspa e un pialletto e, ancora, un martello e un'ascia (3). Il tutto ambientato in pieno deserto, tra sassi, una palma solitaria e mezzo cespuglio arido. Ben lontano dal mare, dunque.

Eppure gli esempi storici di fughe in Egitto, sul mare, non mancano. Prendi i Savoia per esempio!

Il primo - e non poteva che essere lui dato l'ordinale, parte del nome - fu Vittorio Emanuele I: pur di non concedere lo Statuto Albertino (roba del nipote), abdicò in favore del fratello Carlo Felice (proprio quello dell'infelice, per i sardi, S.S. 131) e fuggì in Egitto, ad Alessandria. I sardo-piemontesi nel cambio non ci guadagnarono molto. Ma se non fosse scappato, avrebbero goduto di uno Statuto Vittorino?

Il secondo - stavolta a dispetto del suo ordinale - fu Vittorio Emanuele III: pur di evitare la repubblica rinunciò al trono in favore di Umberto II, fuggì anche lui in Egitto e anche lui ad Alessandria. Sul mare. Altri della famiglia scapparono in Portogallo, anche là sul mare, ma la cosa qui non ci riguarda.

 
giuseppetorna su

Giuseppe De Nicola, dunque, maestro elementare in un paese di montagna, figlio di un padre maestro anch'esso e padre di un figlio che avrebbe voluto, a sua volta, ancora maestro. La sua vita, a raccontarla, è un autentico romanzo! E ve la riportiamo per sommi capi.

Passò l'infanzia in una casetta fra gli olivi, all'ombra di una montagna, abitata da daini, cervi, cinghiali e lupi. Il padre "a tempo perso cacciatore impavido e appassionato; non mangiava mai la selvaggina, ma uccideva le bestie e gli uccelli per istinto primordiale di ferocia". La madre "lavorava la terra come un contadino, potava anche la vite e gli olivi e sapeva l'arte di fare il vino e l'olio", e il pane in casa e piccoli arazzi. Ma la sera, quando accompagnava il figlio a letto, pregava per lui ad alta voce, Giuseppe avrebbe però preferito dei baci, ella non lo baciava mai. E così alle prime carezze di una donna, già giovinetto, cadde stordito. Lei era una parente già anziana, avvezza ad altre colpe simili, accortasi di essere incinta di lui e conscia dell'impossibilità di un matrimonio incestuoso, sentendosi abbandonata, per evitare lo scandalo, s'era impiccata. Giuseppe, sentendo sua la colpa, tenta di espiare adottando Antonio, figlio treenne di lei, frutto di precedenti esperienze. Il bambino viene su bello e prepotente e finite le scuole elementari non vuol saperne più. Cresciuto, fugge lontano, gira il mondo finché sposa la vedova di un armatore, padrona di barche da pesca e di una villa sull'Adriatico con contorno di terra e di vigna. Ha una figlia. E, per riconciliarsi, invia al padre adottivo una scatola di sigari. E siamo nel primo dopoguerra, quando ancora la prima guerra mondiale (assente, purtroppo solo momentaneamente, la seconda) veniva ancora chiamata la grande guerra.

Giuseppe, che nel frattempo aveva espiato la sua pena con una condotta esemplare, lineare e casta, dopo quaranta anni di lavoro, va in pensione. Vende la casa, attrezza la sua valigia, anche col piccolo arazzo materno e, per la prima volta nella sua vita, fa un viaggio, verso la casa del figlio.

 
la nobeltorna su

Su questa trama, apparentemente semplice, Grazia Deledda ricama La Fuga in Egitto, non un arazzo, ma il romanzo di cui parliamo. Pubblicato nel 1925, accompagnò l'autrice al premio Nobel per la letteratura nel 1926, consegnatole in realtà al termine del 1927.

La Fuga in Egitto è ritenuta una delle opere "europee" della scrittrice, capace cioè di valicare i confini del narrare di Sardegna, non tanto per l'ambientarsi in luoghi e con personaggi che sardi non sono, quanto per l'atopico riflettere dentro, fuori e al di là della scena scelta. Luoghi senza luogo. Occasioni per narrare e non spazi e situazioni da narrare. Narrare psicologico più che antropologico. Questa opera di Deledda arrivò in effetti, da subito, ad un pubblico internazionale, grazie anche alla sua - all'epoca ormai raggiunta - notorietà. Questo romanzo ed il precedente, La danza della collana pubblicato nel 1924, contribuirono grandemente alle motivazioni del Nobel. A dispetto della scarsa generale conoscenza che oggi il grande pubblico ha, sia dell'opera complessiva della Deledda, sia delle sue opere "europee". E se parlassimo del pubblico colto, o degli addetti ai lavori, la situazione non cambierebbe. Basti pensare che non poche delle antologie letterarie adottate nelle scuole, anche sarde (sic!), non dedicano alla Deledda neppure una pagina.

Quasi che il Nobel a Deledda sia stato uno scivolone nella storia del premio. Se così è stato, buona è stata la  compagnia: nel 1925, anno precedente, il premio venne assegnato a George Bernard Shaw; nel 1927, anno successivo, fu il turno di Henri Louis Bergsoon. Scivoloni anch'essi?

 E fra qualche riga vedremo perché il romanzo si collega agli argomenti trattati da questo sito.

 

 
indietrotorna su

Ma torniamo al romanzo. 

Ogni passo in avanti è, per quanto questo argomento possa sembrare solo un imbroglio linguistico, un notevolissimo passo all'indietro. Ogni volta che l'uomo singolo o l'umanità intera raggiungono un risultato vigoroso, vigoroso è anche il passo all'indietro necessario. Correre disperatamente volontari, o obbedienti, in avanti è spesso atto apparentemente eroico ma inconsulto (4). A volte nelle grandi cose è enormemente utile inserire una decisa retromarcia o, per lo meno, navigare di bolina. Nel piccolo, infinite volte, pensando di lasciarci il passato alle spalle, ci rituffiamo dentro inavvertitamente. Ed è ciò che succede, dapprima inconsciamente e poi incoscientemente, a Giuseppe De Nicola.

Il primo assaggio del passato eccolo alla stazione di arrivo, nessuno lo attende, e si ritrova ad incamminarsi da solo,  come già nel suo percorso di espiazione che riteneva concluso. E per strada, tra i pensieri, viene travolto dall'incontro con la piccola nipote Ola - e come altro potrebbe chiamarsi chi ti travolge sulla riva dell'Adriatico? - e la "parente povera" Ornella. E poi nei locali "poveri" della villa l'incontro con la malarica Marga, madre di Ola e  moglie di Antonio, il figlio di Giuseppe.

Quando scopre che Ornella è l'amante di Antonio e che aspetta "un figlio dal figlio", Giuseppe acquista coscienza del passo all'indietro compiuto. Dapprima cerca di divincolarsi e liberarsi, si allontana dalla villa e accetta l'incarico di custode giudiziario di un'altra villa, teatro di un parricidio.

E sarebbe libero, se non fosse solo un personaggio del romanzo. Questo e la sua trama incombono. Ornella, scacciata infatti da Antonio, gli chiede protezione. Teme per la vita del nascituro e, pur tra le proprie indecisioni e movimentate inclinazioni, dopo il parto, convince ed è convinta da Giuseppe al grande passo. La loro Fuga in Egitto si materializza nel silenzio di una notte: a piedi, sulla riva del mare,  un uomo anziano, una donna e un neonato in gran segreto. Solo il neonato non si lascia orme dietro, dice Deledda: i passi all'indietro non cancellano quelli in avanti, e la vita, sulla spiaggia dell'Adriatico e altrove, non è altro che un nascondersi e zigzagare fra le dune. Torneranno al paese di Giuseppe, abiteranno nella sua riacquistata casa. Questi riconoscerà come proprio figlio il bambino, presenterà Ornella come propria moglie e vivranno come lei vorrà.

Il canovaccio della madre di Giuseppe viene donato, ringraziamento e addio, ai due contadini che custodiscono i campi della maledetta villa del parricidio. La sua funzione di portolano - come entrare ed uscire dal porto e rifugiarsi alternativamente nella terra amara o nel mare terrifico - si è conclusa. Ad altri sarà utile, altri hanno bisogno di scappare per ritrovarsi.

 
l'abito del monacotorna su

La Fuga in Egitto è un romanzo in cui l'abito fa il monaco. Tutti i personaggi, prima di recitare, devono indossare la loro maschera, il loro nome.

Non può che chiamarsi Giuseppe chi fugge in Egitto. Si chiama così il primo Giuseppe che arrivò in Egitto suo malgrado, venduto dai fratelli a dei mercanti. Si chiama così il padre putativo di Gesù, marito virtuale di Maria, non può che chiamarsi così il nostro Giuseppe, anche lui padre putativo e marito virtuale. Maschera di cui il nostro è alternativamente cosciente o incosciente. Nella prima pagina, sa già di viaggiare verso Betlemme, ma si immedesima in uno dei Re Magi. Alla fine del romanzo i Magi saranno tre, portando in dono una gallina bollita, un pezzo di maiale arrosto e la paternità. Ma quando raggiunge la perfetta coscienza, a chi gli chiede dove farà partorire Ornella, risponderà "Gesù è nato in una stalla" (5). Sino a ricordare, e ritenerlo rivolto a se, il messaggio che un angelo diede all'altro Giuseppe "destati, prendi il fanciullino e sua madre, e fuggi in Egitto".

Ma, come sempre in Deledda, le maschere femminili sono quelle più riuscite.

La prima della triade, a rappresentare la vita, la vitalità della natura e la onnipotenza dell'infanzia, Ola. Non può che chiamarsi Ola, onda in castigliano, la piccola figlia di Antonio e nipote di Giuseppe. Il suo nome è presentato come il diminutivo di Giuseppina Nicola, datole in omaggio al nome e cognome del nonno. Ma, come non pensare! Ola la si incontra e la si frequenta sulla spiaggia, è figlia di proprietari di barche,  raccoglie i sassolini sulla spiaggia, osserva i pesci guizzanti, sussurra nelle orecchie, soffia impetuosa sul viso, consuma la roccia e come una buona onda trasporta e si fa trasportare, riporta in porto gli ammalati velieri: "... egli disse sollevandosi un poco per veder meglio Ola. - Adesso la barca è salva e tutto va bene.". La sua presenza è accompagnata nella mente di Giuseppe dal ritornello "il marinaio su le onde ..." Ed è sopratutto un'onda che travolge con la sua vitalità, al punto da far rischiare in qualche momento il naufragio al nonno. E tutta la sua descrizione è valida per l'onda: (i capelli) salati, (il nome) si scioglie come un frutto maturo, (gli occhi) di sole e di ombra, (la guancia) liscia e morbida.

La seconda figura femminile rappresenta la pienezza e la maturità della vita, l'amante, la madre e la nutrice. E' quindi Ornella il suo nome. Dal suono ampio, corposo e carico di doppie consonanti - richiama una figura femminile massiccia, giunonica, alta, intraprendente e sbrigativa (6). Incorniciata di trecce gialle, come la madonna dell'arazzino. Gambe alte e potenti, rassomigliante a una bestia favolosa. Amata e odiata e, per concetti contemporaneamente paralleli e contrapposti, disprezzata e garantita, a seconda di quale spazio occupi, temporaneamente, nella vita di ognuna delle altre maschere.

Dopo la nascita e la vita, l'ultima femminile maschera e quella della morte. E allora eccola: giace in una stanza piccola e triste, quasi interamente occupata da un grande letto in legno, pallida, con gli occhi lucidi e spaventati, le braccia sono esili, senza vene, nude e bianche, le mani sono grandi e una di esse stringe un rosario di madreperla. Parla dei morti come se fossero presenti, e dei vivi con gli stessi termini usati per i morti. E, come un'anima mandata ad espiare sulla terra, vive a singhiozzo, nelle parentesi lasciatele dalla malaria. E' la madre di Ola, la vedova ricca, moglie di Antonio. E si chiama Marga, parola che, con la stessa iniziale della parola morte, con l'assonanza con l'inglese morgue, indica in italiano una terra soffice e calcarea, cimiteriale, appunto.

Antonio. Non era certo culturalmente corretto chiamare Angelo il padre, non putativo, del figlio di Ornella/Maria. E si ripiega sulla stessa prima sillaba. Ma Deledda sa anche che una delle errate etimologie rinascimentali di Antonio pone il nome in relazione col greco anthos oinos, fiore di vino. Quell'efflorescenza biancastra che aggredisce talora i vini, costituendone un difetto ma garantendone, con la sua presenza, la genuinità. E infatti Antonio è un gran bevitore e Marga, la morte, non è da meno. Le polverose bottiglie, ad ogni pasto, vengono su abbondanti dalla cantina. E del resto è, in uno, proprietario di barche e di vigna.

Quando servono in scena due contadini, ecco due fratelli, uno bigotto e l'altro che, nella migliore tradizione contadina, si ritiene più scaltro di dio, niente di meglio che due autentici nomi sardi, Proto e Gesuino. Saranno loro due dei tre Re Magi, e recheranno doni da contadino.

Ma Deledda non si limita a ricercare con attenzione i nomi umani, anche gli animali recitano con il nome più appropriato.

Il cane, vispo e giocherellone, si chiama Birba.

Lenin, "accolto con ambigui segni fra simpatia e ostilità", è invece il nome del maialino che, naturalmente, quando entra in casa si comporta da maiale. Questo può essere forse uno dei passaggi "politicamente scorretti" del romanzo (7). Fatto perdonabile, se paragonato al comportamento di alcuni letterati contemporanei. Nello stesso anno in cui si pubblicava il romanzo, Ungaretti sottoscriveva il Manifesto degli intellettuali fascisti, con la buona compagnia di Di Giacomo, Pirandello (8) e altri.

 
le tartarughe di deledda torna su

In Deledda l'approccio all'ambiente costituisce il fondale davanti al quale si muove ogni suo romanzo. Che il suo narrare fosse qui introspettivo, e altrove antropologico, non le impedisce di attingere all'enorme patrimonio di conoscenze che, come lei ammetteva, le era stato trasmesso da vecchi saggi, pastori e contadini, analfabeti che attingevano il proprio sapere non dai libri ma dall'osservazione continua della natura. Osservazione che, quando era accompagnata da lunghi periodi di solitudine e di silenzio, cosa all'epoca più comune di oggi, diventava contemplazione, e fusione in essa.

Non mancava certo in Deledda la capacità di ascoltare. Ma non meno importante era anche la possibilità di osservare. Come in tutte le famiglie contadine, benestanti o no, ieri come oggi, l'esistenza osserva i tempi della natura. E la natura pretende il lavoro di tutti. E c'è un momento, se mai non lo è dall'origine, in cui l'agricoltura diventa agricultura. Cosa ben conosciuta agli antichi.

Chi ha visitato la casa di Deledda, a Nuoro, ha senz'altro notato il grande orto, dietro la casa recintato con muretti a secco, o tenuti a calce, non molto dissimili da quelli utilizzati nelle campagne. Per gustarlo occorre immaginarlo non come un terreno desolato, ma vedervi gli ortaggi (non di infinite varietà), le piante da frutto tipiche dell'orto sardo (il pergolato di uva, i melograni, un limone, qualche pero rustico, i fichi, il prugno, ...) e gli animali. Molte galline, forse poche anatre, un maialetto da ingrassare, nella migliore delle ipotesi qualche coniglio. E come in tutti gli orti, uno o due gatti, contro i topi, un cane, a dissuadere volpi e malintenzionati, e una tartaruga. Che ci fosse lo sappiamo, e sappiamo anche che era un animale amato. Al punto da dedicargli le stesse cure altrimenti riservate solo ai grandi animali da reddito. Nel racconto Strade sbagliate, troviamo "...sognavo un principe: e invece mi domandò in matrimonio il veterinario. Era un bel giovane, alto , forte, che curava le bestie con affetto paterno: anche gli uccelli feriti, curava, anche i conigli e, mi ricordo, una volta, anche una tartaruga che noi si aveva nell'orto ed era caduta da un muraglione." Nel racconto "La Tartaruga" ci descrive l'effetto della possibile caduta (in quel caso da una terrazza) "le serve ti butteranno giù, perché sono tutte cattive, e tu ti romperai come un vetro, ..."

Nella sua opera Deledda non dedica molto spazio ai cheloni. Non si ripromette di certo la diffusione di conoscenze scientifiche e di pratiche di allevamento. Ma in questo romanzo, inaspettatamente, dedica alle tartarughe ben quattro passaggi.

Nel descrivere l'anziana custode della Villa degli Ontani, la villa del parricidio, un primo  riferimento "e andò via senz'altro, con un passo lento e silenzioso di tartaruga." E', se vogliamo, una immagine tradizionale che acquista una dimensione nuova. La descrizione incidentale coglie nel raffronto, come meglio non si potrebbe, l'andatura dell'anziana donna e le grandi distanze percorse dalle tartarughe. La Villa degli Ontani è fuori dall'abitato, dove ogni traccia di abitazione umana sparisce, dopo un filare fittissimo di ontani. Eppure l'anziana donna, dal mercato del paese, percorre tutta la strada a piedi, lenta, col passo silenzioso e continuo. Come una tartaruga che non batte i tacchi e non percuote il suolo. Allora, come adesso, non pochi invece battevano e percuotevano e andavano e venivano rumorosamente.

Una fase del percorso all'indietro compiuto, a più riprese, da Giuseppe, è occasione per raffigurare l'aggressore del suo animo: La solitudine, ..., lo riprendeva a succhiare, come la tartaruga la terra;". Il fatto è ben conosciuto, le testuggini nei periodi siccitosi, rubano alla terra arida la poca umidità che vi trovano. Questa immagine dell'animale non gregario, e quindi solitario,  che neppure dedica spazio alle cure parentali, e che ruba alla terra la vita, piaceva a Deledda. Scrisse un racconto breve, La Tartaruga, anche quello fatto di solitudine densa come il granito, in cui due esseri, una donna e una tartaruga, forse acquatica, si tengono reciproca compagnia, anche loro fuggono assieme, la tartaruga verso la vita e la donna, forse, verso la morte. Là quella volta l'immagine diventerà lirica. L'atto del succhiare è descritto come  "un bacio continuo, fra lei e la terra", e ancora "il succhiar della bestia, nell'angolo dove c'era la brocca dell'acqua e quindi un po' di umido per terra, sembrava alla donna la voce più potente della notte".

Tacendo per ora del terzo passaggio, nel quarto un'altra immagine tipica. "Ornella non sollevò la testa, ma cessò di cucire, con l'ago ancora ficcato nella tela; e il suo atteggiamento ricordò al maestro quello della tartaruga quando si ferma nel sentirsi inseguita, pronta a ritirarsi tutta nel suo guscio". Simile immagine si ritrova nel racconto La sedia (9). "La donna mi richiama: sento che è disposta a seguirmi: ho davvero paura. Mi fermo, senza voltarmi, come la tartaruga quando si sente inseguita. Se il cacciatore ha da pigliarmi mi pigli, purché non mi ammazzi".  Anche Deledda vede il comportamento della tartaruga come abile difesa, sia pure quasi solo passiva, al punto di adottarlo come proprio comportamento nei momenti di difficoltà.

Ma è il terzo passaggio che ci appare il più importante fra i quattro. Qui Deledda fissa nel romanzo uno dei motivi per cui negli orti sardi era, ed è, ben accetta la tartaruga. Giuseppe, nel convincere la donna, e se stesso, alla fuga, "ricominciò a tentare di sedurre moralmente Ornella col descriverle la vita semplice e pittoresca del paesetto lontano", tra l'altro,  racconti di caccia, "era l'unico modo di prendere l'anima barbarica della donna, ed egli aveva cura di fermarsi a tempo, sul punto culminante, e lasciarla colpita e sospesa, per riprendere poi con maggior sicurezza: così fa la tartaruga, quando prende, pungendolo con cautela, il ragno velenoso."

 
il ragno ... e la testugginetorna su

Il ragno di cui parla Deledda, non dovrebbe essere un ragno qualunque ma ... la più bella filangiana (10) presente in Sardegna. E' cioè il ragno chiamato qui Argia, in Toscana Ragno di Volterra e nella sistematica Latrodectus tridecimguttatus (Rossi,1790). Stretta parente della Vedova nera americana.

Come dice il nome, "morsicatrice dalle tredici macchie", la femmina è ben riconoscibile per le macchie, sebbene non sempre tredici, di colore rosso o rosso arancio. Il veleno che inietta è tra i più pericolosi nel mondo animale. Fortunatamente la quantità prodotta è piccolissima. Tra le sue vittime deputate non rientra l'uomo, che è invece oggetto di interventi difensivi.

 Autenticamente pericolosa è solo la femmina, il maschio è infatti più piccolo, e con colori meno appariscenti, e non è in grado di forare la pelle umana per iniettarvi il veleno. Naturalmente se il maschio morde su una ferita o su una mucosa ...

Una parte importante degli studi di antropologia sarda è stata dedicata all'argia e alle pratiche "sanitarie" di diagnosi e terapia tradizionale.

E' un animaletto, lento nei movimenti, che ama abitare aree abbandonate e ruderi, ma non disdegna le coltivazioni di cereali, i muretti a secco, anche negli orti, le cataste di legna da ardere che occupano i cortili delle case sarde. E, fatto poco conosciuto, colonizza le fresche aree ortive e i tralci nelle vigne. In passato la sua pericolosità era ben conosciuta fra contadini e pastori. Frequentissimi erano gli incidenti anche mortali durante i lavori manuali di mietitura. Il bestiame al pascolo era spesso vittima di punture sulla bocca e nelle narici. La meccanizzazione e gli interventi chimici in agricoltura hanno ridotto i contatti "manuali" e, per il loro impatto nell'ambiente, ne hanno limitato fortemente la presenza numerica. Negli ultimi tempi sta rioccupando le aree dismesse dall'agricoltura e rinaturalizzate.

Il colore rosso delle sue macchie mette in allarme i possibili predatori. Esistono però alcuni animali per i quali il colore rosso significa cibo appetitoso. Tra questi la testuggine. Il fatto è noto a tutti gli allevatori di testuggini mediterranee. Pomidoro maturi, fragole, frutta rossa in genere, petali di fiori, roba da banchetto.

E, secondo il racconto, di tanto in tanto, qualche bel ragno rosso, come dolce! E' probabile che le testuggini non siano immuni al veleno dell'argia, qualora questa arrivi a iniettarlo negli occhi o in bocca, sole parti molli e perforabili in una testuggine. Invece, una volta inghiottita, gli enzimi dell'apparato digerente farebbero il resto. E' abbastanza diffuso nel mondo animale, spesso i predatori di specie velenose non sono immuni al veleno delle loro vittime.

La testuggine adotta quindi una tecnica di caccia che tende a neutralizzare le capacità offensive dell'avversaria, demolendone la mobilità e attendendo il momento opportuno per assaporare il dolcetto.

E' probabile che Deledda abbia colto uno dei motivi che hanno spinto i sardi ad ospitare le testuggini nei propri cortili. Occorre comunque dire che non conosciamo altre fonti ne altri studi che possano però confermare questa possibilità. Pertanto non consiglieremmo a nessuno di  somministrare ragni rossi alle proprie testuggini.

 
le radici e gli alberitorna su

I grandi alberi sono tali per le grandi radici che li nutrono. Solo la cultura contadina e pastorale ha permesso a Deledda di erigere grandi rami e folte chiome che da Nuoro hanno fruttificato fino a Stoccolma. La Sardegna, sempre presente, ha permesso di cogliere piccoli importanti aspetti della vita quotidiana di un animale minore e poco conosciuto, allora come oggi. Senza certo intenderne l'importanza per gli studi biologici, ma non era certo questo che la vincitrice del Nobel per la letteratura 1926 si riprometteva.

 
le notetorna su

Tutte le citazioni dell'opera La Fuga in Egitto sono tratte dall'edizione Fratelli Treves Editori, Milano, 1926, rintracciabile in libera lettura dalla pagina leggi gratis di questo sito. Al fine di non appesantire inutilmente questo commento, si sono omesse le puntuali note di riferimento alle pagine.

 (1) brazzolino: è una piccola culla a dondolo, naturalmente di legno; torna al testo

(2) serra: è la tipica sega da falegname, con la lama tensionata da una corda ritorta, o da un tendine robusto o, in tempi moderni, da una barra filettata e qualche dado; torna al testo

(3) non l'ascia del boscaiolo, naturalmente, ma l'ascia del "maestro d'ascia", sorta di zappa col manico corto, il ferro ricurvo e affilatissimo; torna al testo

(4) anche a non voler parlare dell'utilità della bandiera bianca e del diritto, congenito negli intelligenti, alla renitenza e alla diserzione, se volete restare nel politicamente corretto, prendiamo per esempio il tenente Santini di Un anno sull'altipiano - giusto per trattare di un altro autore sardo e restare nella grande guerra - lascia le cose a metà: bene fa a non offrirsi volontario, ma anziché accettare le pinze impostegli e morire sul reticolato nemico, meglio le avrebbe utilizzate per estrarre la stoltaggine dal cranio del proprio criminale comandante; torna al testo

(5) poco importa che la stalla dei vangeli non disponesse di un soppalco. In questo senso la stalla di Deledda è certamente più attrezzata: soppalco, camino e steariche. Senza però il bue e l'asino che, come è notorio, vivono bene al piano terra e male ai piani alti. E non vorremmo che qualcuno leggesse, in queste ultime parole, chissà quale commento. Il concetto sarebbe comunque chiarissimo se si pensi, specie da dilettante, alla situazione politica presente; torna al testo

(6) per spiegare meglio il concetto, una cosa è chiamarsi Ornella o Giunone, un'altra è chiamarsi Lina o Tina. A prescindere dalle caratteristiche fisiche delle singole donne che possano portare, di volta in volta, questi nomi, è chiaro che questi ultimi richiamano una figura esile, diafana e con le ossa poco coperte da muscoli; torna al testo

(7) ciò la dice chiara sui sentimenti diffusi all'epoca in alcuni settori della borghesia romana, di cui Deledda era parte. Altri passaggi, anche più gravi, "politicamente scorretti" riguardano alcuni passaggi riguardanti gli ebrei, l'ebreo errante è un parricida, la ricchezza è paragonata a quella dei mercanti ebrei; torna al testo

(8) a parte l'opportunistica adesione al fascismo da parte di Pirandello, curiosi parallelismi lo uniscono a Deledda, l'origine insulare, nacque infatti a Agrigento; vinse anche lui il Nobel, nel 1934; morì pochi mesi dopo Deledda, entrambi nel 1936; torna al testo

(9) breve racconto che inizia "in una strada popolare di Roma". Il cagliaritano che legge il racconto vi vedrà però dei personaggi tipici di Cagliari, piciocus de crobi. Nel suo soggiorno in questa città evidentemente Deledda rimase colpita, oltre che dai paesaggi gustabili da Monte Urpinu, anche dalla varia umanità e miseria cittadina; torna al testo

(10) filangiana (o filanzana): in lingua sarda "filatrice".  Indica non solo il ragno, colto in una delle sue attività più femminilmente umane, ma anche un personaggio benefico, una figura femminile, metafisica Jana e amica delle Janas, capace di coadiuvare le donne nelle attività casalinghe, e di sostituirsi ad esse per pura bontà. Fornita di fuso e conocchia, custode della Janua (la porta di casa), padroneggia benevolmente la vita e la morte. Istruisce "incapaci" sposine, custodisce i bambini soli, riassetta le case durante l'assenza delle donne, inforna il pane, vigila il fuoco nelle cucine e mette il naso anche nella cottura dei cibi. Di tanto in tanto non disdegna accompagnarsi a ignare e smarrite viandanti alle quali indica la via di casa. Come maschera del carnevale sardo (il viso androgino di legno nero, col fuso minaccioso e le forbici appese al collo ... è una delle parche? E quale? O è il sincretismo delle tre parche?) è labilmente assimilabile alla befana. All'interno del panteon cattolico ... vedete voi! Indica anche la donna tessitrice di trame che portino a nuovi matrimoni, una specie di sensale, anche se a volte non richiesta. Chi volesse, potrebbe trovare delle parentele col termine francofono, ma di origine malgascia, "filanzane" o "filanzana" che indica la "portantina" del Madagascar, tipico mezzo di trasporto di quell'isola. Nella sua versione più evoluta è una "sedia gestatoria", nella veste più semplice è un intreccio, una ragnatela,  o di corde o di vimini o di pezze di stoffe o di legno e pelle, nel quale il trasportato assume una  posizione semisdraiata. Una amaca o rete da viaggio, una ragnatela, in definitiva. torna al testo

 

 

Hit Counter versione pagina 06/08/2013

 

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